Se è vero che la nascita di un figlio rappresenta per i genitori un evento nuovo e intenso che evoca fantasie e aspettative più o meno inconsce, la nascita un figlio portatore di handicap significa dover affrontare un evento a suo modo traumatico. Non accade quello che ci si aspetta e la reazione può paragonarsi a quella che si ha quando si deve affrontare un lutto, in questo caso però la perdita connessa non è fisica, ma è la perdita dell’immagine attesa.
Pur essendo ogni situazione complessa e unica si può ritrovare una certa tipicità di risposta nelle famiglie; abbiamo così reazioni che si situano tra i due poli di un continuum: da un lato genitori che elaborano il lutto attraverso la iperinformazione, consultazioni, consigli da medici e associazioni famigliari, dall’altro famiglie che non riescono ad affrontare l’evento e negano la disabilità del figlio. All’interno di queste due polarità ogni membro della famiglia ha una propria modalità di far fronte alle difficoltà che la cura di un bambino disabile presenta, modalità che dipendono dal ruolo e da fattori di personalità.
La madre può subire profondi contraccolpi nella propria autostima portandosi dietro un profondo senso di colpa per non essere riuscita a mettere al mondo un figlio “normale”; può cercare la riparazione a questo sentimento attraverso lo stabilirsi di un forte legame privilegiato col figlio, legame che oltre ad impedire l’espressione delle autonomie del bambino, rischia di escludere il padre.
In altri casi è la rabbia a prendere il sopravvento, rabbia contro i medici ritenuti responsabili dell’accaduto, contro insegnanti e educatori non ritenuti in grado di gestire il proprio figlio. La rabbia di per sé è un sentimento del tutto comprensibile e naturale di fronte ad un evento che implica una perdita, ma dietro di essa si possono nascondere le difficoltà connesse all’accettazione dell’handicap. Anche l’estrema razionalizzazione o la distanza emotiva possono nascondere questa difficoltà ma anche queste modalità non sono da biasimare in quanto talvolta necessarie per sopportare il dolore provato o l’angoscia che la disabilità porta con sè, tuttavia possono impedire una adeguata sintonizzazione con i bisogni specifici del bambino. Il fratello normodotato è quasi sempre coinvolto in queste dinamiche: se è fratello minore può sentirsi investito di aspettative che non hanno possibilità di essere soddisfatte dal figlio disabile, se è maggiore potrà essere precocemente adultizzato e responsabilizzato senza che siano considerati i suoi reali bisogni evolutivi.
Tutte le reazioni hanno una loro funzione lungo il cammino che porta ad una serena accettazione delle disabilità del figlio ed è soltanto attraverso questa accettazione che si può giungere a valorizzare le potenzialità che il figlio “imperfetto” porta con sé.
Caso clinico: Paola
Paola è una ragazza di 28 anni con un bel viso, in leggero soprappeso, un modo di muoversi un po’ impacciato, è di poche parole e quelle poche quasi sussurrate come a volersi nascondere. Ha un deficit intellettivo lieve che ha reso necessario un insegnante di sostegno a partire dalla seconda elementare. Legge e scrive correttamente, ma ha notevoli difficoltà nei compiti che implicano una maggiore competenza cognitiva; presenta inoltre difficoltà soprattutto nella manualità fine. Nonostante queste difficoltà Paola lavora da circa cinque anni presso una cooperativa in cui sono inserite altre persone con ritardo mentale. Paola esegue con competenza tutti i compiti che le vengono proposti, anche quelli che implicano un discreto grado di apprendimento. Ma appare sempre insoddisfatta e demotivata sia nei momenti lavorativi, che in quelli in cui si relaziona con gli altri utenti e viene malvolentieri in cooperativa. Afferma di voler fare un lavoro di segreteria, prova per un certo periodo un semplice lavoro di immissione dati al computer, ma qui incontra notevoli difficoltà: si confonde, sbaglia, si sente frustrata e così torna al precedente lavoro insieme alle sue insoddisfazioni. Se nell’ambiente di lavoro Paola non mostra alcun interesse per gli altri colleghi disabili, nei fine settimana li frequenta con soddisfazione mostrando di trovarsi a proprio agio con loro e di riuscire a condividerne gli interessi.
Lo psicologo, consulente presso quella cooperativa, decide di parlare con la persona che si prende cura di Paola: la madre. Il padre aveva lasciato la moglie quando Paola era piccola e si era rifatto un’altra famiglia, nonostante i rapporti con l’ex moglie e la figlia siano sempre rimasti buoni nel tempo, tutte le scelte relative all’educazione di Paola gravavano sulla madre. Durante il colloquio la madre si lamenta più volte del fatto che il lavoro che Paola svolge nella cooperativa non rende merito delle sue vere potenzialità che sarebbero più evidenti in un altro ambiente; vede inoltre che la figlia ha molte difficoltà a instaurare relazioni con gli altri lavoratori disabili sentendosi molto a disagio con persone che sono ad un livello intellettivo troppo distante dal suo.
Durante il colloquio emerge la domanda che probabilmente l’ha assillata più volte nel corso degli anni: “che cosa ha veramente mia figlia? Nessuno me lo ha mai saputo dire!”. Gestazione e parto sono stati regolari e non si sono riscontrati problemi durante i primi anni di sviluppo; le prime difficoltà si sono manifestate nella scuola elementare ma in quel contesto erano gli insegnati che non erano in grado di fare il loro mestiere! La rabbia della madre verso coloro che si sono occupati dell’istruzione della figlia diventa poi un pianto che nasconde un forte senso di colpa per il timore di aver fatto scelte sbagliate per il suo futuro: sente infatti di aver condannato Paola ad un futuro da disabile quando l’ha iscritta a una scuola “speciale” che formava ragazzi con problemi di apprendimento e non ad una “normale” scuola superiore. Le difficoltà di Paola nel sentirsi al suo posto in Cooperativa erano il riflesso delle difficoltà della madre nell’accettare i limiti della figlia. La signora si era trovata a dover affrontare nel corso degli anni una sorta di lutto anche perché non era mai stata aiutata nel difficile cammino verso l’accettazione, tanto più difficile in quanto la mancanza di una diagnosi e l’handicap non immediatamente evidente della figlia, aveva fatto sì che lei non potesse abbandonare l’aspettativa di una figlia “normale”.
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